TATTICHE DELLA DIPLOMAZIA |
Yevgeby V. Tarle | |||
nomade n. 9 dicembre 2014
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OÙ NOUS SOMMES EN HIVER
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Da qualche tempo sembra proprio che tutti ritengono che la risposta efficace agli attuali venti di guerra sia la “diplomazia”. Ecco un assaggio (trovato in soffitta) del suo storico modo di essere e di operare.
LA TATTICA DELLA DIPLOMAZIA BORGHESE [1] Lo studio dei documenti storici, insieme alla osservazione e alla analisi dei fatti dell'attualità internazionale, permette di discernere un certo numero di manovre tattiche utilizzate, ora alternativamente ora simultaneamente, in quella lotta diplomatica ininterrotta che precede i conflitti armati, succede loro e prosegue anche, sebbene più lenta, durante le ostilità. L’aggressione dissimulata con i motivi della difesa Innanzi tutto occorre sottolineare che la manovra di camuffamento più in uso, per non dire la più banale, è quella di giustificare la guerra con i bisogni di "autodifesa".Federico II°, uno dei diplomatici tedeschi più intelligenti e più cinici, non sfuggì ad una caratteristica propria a tutti gli uomini politici del suo paese, ivi compreso Guglielmo II°. Questa stessa caratteristica raggiunse una forma quasi mostruosa nella pratica diplomatica hitleriana. Si tratta soprattutto del bisogno invincibile che provano i capi politici tedeschi di cercare una giustificazione teorica agli scopi che essi si propongono e ai mezzi impiegati in politica estera. Ma -appunto perché era intelligente, Federico II° non divulgava mai le sue teorie; egli si accontentava di annotarle "per suo proprio uso" o di inserirle nei suoi "testamenti intimi" per i posteri; infatti i suoi appunti non erano affatto destinati allo sguardo indiscreto degli estranei. Questa è, fra l'altro, l'origine del curioso manoscritto in lingua francese, che porta la data del 1752 circa ed intitolato i «Rêves politiques» (come si sa il re di Prussia si esprimeva meglio in francese che nella lingua materna). Il manoscritto non fu mai pubblicato per intero ed alcune sue parti rimangono inedite. Malgrado il titolo di Anti-Machiavelli che Federico aveva scelto per le «Rêves politiques» e gli altri scritti venuti alla luce dopo la sua morte, egli era un discepolo fedele del pensatore fiorentino. I principi di Machiavelli rivestono nel re di Prussia una forma precisa e senza equivoco. Se una terra è di vostro gusto, anche se disponete di pochi mezzi necessari, inviate le vostre truppe ad occuparia e poi, davanti al fatto compiuto, si troveranno sempre dei giuristi e degli storici che proveranno i vostri diritti incontestabili su questo territorio. Questo pensiero, Federico II° l'aveva ripreso sotto tutte le forme possibili ed immaginabili, e finì col prendere valore di assioma per i successori sul trono prussiano e in seguito della Germania. « Un Hohenzollern non rinuncia mai a ciò di cui una volta si è impossessato », diceva Guglielrno I°. La stessa tesi, sotto una forma ancora più brutale e impudente, ritornava costantemente nei discorsi di Goebbels, di Dietrich e di altri hitleriani dopo che nel 1938 la Germania fascista si dedicò al saccheggio sistematico degli Stati vicini. Un esempio classico di menzogna premeditata, destinata a giustificare con una pretesa «legittima difesa» la violazione di un impegno solenne, ci è fornita dalla storia dell'invasione del Belgio da parte dei tedeschi nell'agosto '14. Come è noto, il re di Prussia Federico Guglielmo III° aveva firmato il trattato di garanzia del 19 aprile 1839, che obbligava le parti contraenti a «rispettare l'indipendenza e la neutralità» del Belgio. Inoltre, con una convenzione particolare, conclusa l’11 agosto 1870 con l'Inghilterra e il Belgio, Guglieimo I° prese l'impegno solenne, in caso di invasione del Belgio da parte di una terza potenza o, in maniera più generale, in caso di violazione della sua neutralità, di cooperare con l'Inghilterra e di usare l’esercito e la marina tedeschi per difendere questa neutralità. Questo non impedì al governo tedesco di indirizzare senza ombra di ragione, il 2 agosto 1914, alle sette di sera, al ministro degli Affari esteri belga, Davignon, la famosa dichiarazione per cui i tedeschi pretendevano di aver avuto sentore delle «intenzioni » dei francesi di violare la frontiera belga, il che li metteva - dicevano - nella necessità imperiosa di precedere il nemico e di occupare il territorio belga. Mai i francesi avevano concepito il progetto che fu loro attribuito, e nessun sentore di questo genere era potuto giungere ai tedeschi. La spiegazione era più semplice: secondo il piano strategico di Schlieffen,, elaborato una quindicina di anni prima, il rapido successo di una veloce aggressione militare contro la Francia aveva bisogno del passaggio delle truppe attraverso il Belgio. E all'indomani della dichiarazione del 3 agosto, le truppe tedesche invadevano il territorio belga. L'ulteriore evoluzione degli avvenimenti è particolarmente caratteristica dei metodi diplomatici tedeschi. Malgrado gli indubbi vantaggi strategici della operazione, l'invasione del Belgio comportava un grave rischio: quello di spingere l'Inghilterra, fino allora indecisa, a dichiarare la guerra alla Germania. Cosciente del pericolo, il cancelliere Bethmann-Hollweg tentò di attenuare la disastrosa impressione che aveva prodotto in Europa la violazione della neutralità belga. Così, il 4 agosto, il cancelliere dall'alto della tribuna del Reichstag, riconobbe che una a ingiustlzia era stata commessa il verso il Belgio, ma, aggiunse, che nessuno poteva farci niente poiché la «necessità non conosce legge». La Germania era stata «costretta» a compiere questo atto illegittimo perché era in causa la sua «sicurezza». Però alcune ore dopo questo discorso, i tedeschi constatarono l'inutilità dell'appello di Bethmann-Hollweg: la sera dello stesso giorno l'ambasciatore inglese, sir Edward Goschen, rimise al cancelliere tedesco un ultimatum: o evacuare il Belgio o la guerra con l'Inghilterra. Il termine per la risposta: sei ore. Il cancelliere tedesco era disorientato: persuaso che l'Inghilterra non avrebbe reagito, il mattino non aveva ancora nascosto il suo trionfo; ora, sotto il colpo della sorpresa, egli perdeva la calma e faceva dei ragionamenti che non avrebbe fatto in tempi normali. Quando Gorschen gli ricordò che la Germania aveva garantito con la sua firma la neutralità belga che ora essa violava, il cancelliere perse la calma: «Voi volete dire che a causa di un pezzo di carta, avete l'intenzione di fare la guerra a un paese che vi è apparentato con vincoli di sangue?», grido egli con rabbia. Nella notte dal 4 al 5 agosto, alle 11 di sera, l'Inghilterra dichiarò la guerra alla Germania. Ma la questione non terminò qui. «L'appelllo franco e sincero» di Bethmann-Hollweg si era dimostrato inoperante. La diplomazia tedesca concepì una nuova teoria destinata a giustificare l'invasione del Belgio. «I bisogni di ordine militare prevalgono sulle convenzioni diplomatiche» - dichiarano i tedeschi; l'occupazione del Belgio è dunque perfettamente legittima ed è superfluo «provare» la complicità militare anglo-belga. Queste «prove» i tedeschi pretesero di averle trovate nei documenti durante il saccheggio degli archivi belgi. Va da se che queste «prove» non esistevano. «Non vi è alcun bisogno di argomenti di questa specie», si dichiara in definitiva nella Segreteria di Stato a Berlino quando si constata che «queste giustificazioni» non soddisfano nessuno: dal momento che la Germania è in guerra, essa ha il diritto di fare tutto ciò che è necessario per vincere. E da che - per la prima volta nella storia della diplomazia - questa tesi fu enunciata con chiarezza e franchezza, si verificò ciò che aveva constatato, nella metà del secolo XVIII°, Federico il Grande. Le sue osservazioni furono così confermate nella maniera più chiara sotto i suoi successori, in occasione della questione belga. |
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(continua) L'eminente professore di diritto, Laband, una personalità della scienza giuridica tedesca, si affrettò a proiettare la luce delle sue conoscenze «germaniche» sulla spinosa inquietante questione della neutralità belga. Nel libro «L'amministrazione del Belgio durante l'occupazione militare», il professore Laband afferma che durante la guerra, le autorità militari tedesche non sono tenute ad osservare gli «accordi e le convenzioni» basati sul diritto; la loro condotta è dettata unicamente dalle circostanze e dai bisogni del momento. Del resto, la guerra non deve conoscere leggi imperative o impegni inviolabili; restano in vigore soltanto «i costumi e gli usi di guerra» che, d'altronde, variano e si evolvono secondo la volontà del capo militare. La tesi di Laband trovò numerosi adepti fra i giuristi tedeschi. In una raccolta di articoli intitolata «La verità sulla guerra», Kohler, professore dell'Università di Berlino, scriveva : «Lo Stato ha il diritto assoluto di proteggere i suoi interessi sacrificando quelli degli altri paesi, ivi compresi i paesi neutrali». Kohler scriveva l'articolo alla vigilia della battaglia della Marna, in un momento cioè in cui la vittoria tedesca sembrava cosa certa; perciò egli credeva che potesse dire tutto, senza alcun velo di pudore : «Il diritto deve inchinarsi davanti al fatto ed eclissarsi davanti al vincitore» - dichiara; il solo fatto conta, i «factum valet» (la formula latina era destinata a conferire alla conclusione del giurista una impronta «scientifica»).
Il 23 agosto 1914, cioè tre settimane dopo la invasione del Belgio, le autorità di occupazione fucilarono nel sobborgo di Tamine 400 belgi, ne bruciarono vivi 250 e incendiarono 264 case. Queste gesta gloriose furono commentate dai rappresentanti diplomatici tedeschi nei paesi neutrali; essi non lasciavano prevedere un avvenire più calmo nel caso in cui il popolo belga non avesse compreso la necessità di «sottomettersi alla legge di guerra tedesca». Questa legge, di cui i giuristi tedeschi avevano concepito la base teorica, fu implacabilmente applicata nel Belgio per tutti i quattro anni di occupazione, fino al giorno in cui i tedeschi furono cacciati dal territorio belga da essi insanguinato e devastato. La diplomazia hitleriana portò un elemento nuovo alla giustificazione diplomatica dell'aggressione. Essa si preoccupò di avvisare l'opinione pubblica che vi erano dei casi in cui l'aggressore poteva sic et simpliciter fare a meno di questa giustificazione. Così avvenne, per esempio, l'aggressione tedesca contro l'URSS. Quale procedimento bisognava scegliere per scatenare la guerra contro l'URSS, era la domanda che si poneva insieme con il suo partito Ernst Hermann Bockhoff, dottore in diritto e redattore capo della «National-Sozialinatshefte», portavoce del partito nazista. Nel suo libro «L'URSS è un soggetto di diritto intemazionale?» l’eminente giurista hitleriano rispondeva negativamente a questa domanda retorica. No, l'URSS non è uno Stato, è soltanto un aggregato di nomadi che perseguono scopi rivoluzionari e distruttivi. Per difendersi contro i barbari «bolscevichi», non importa sapere da quale parte sta il diritto per violare, senza avvertenze né ultimatum, le frontiere dell'URSS in qualsiasi momento e per invadere il suo territorio. «Non si avrebbe ragione – trattandosi dell’URSS - di intervento illegittimo: qualsiasi guerra contro l’URSS qualunque sia il pretesto e l'istigatore, è pienamente legittima». E' in questi termini che l'eminente giurista hitleriano formulava la sua tesi. Il compito che in realtà gli incombeva consisteva nel dare un aspetto pseudogiuridico alla concezione dello stato maggiore, cioè che contro l'URSS doveva essere scatenata il giorno stesso in cui sarebbe stata decisa, senza perdere tempo in ultimatum o in altre formalità. Infatti, secondo le autorità militari del Reich, non si poteva aver ragione dell'URSS che attaccandola di sorpresa. La diplomazia e i giuristi tedeschi non facevano dunque che giustificare in anticipo la tattica dello stato maggiore. L’aggressione camuffata da motivi “disinteressati” Dopo la larga utilizzazione del camuffamento dell'aggressione con la « autodifesa », viene quella che consiste nel giustificare l'atto di violenza con motivi «disinteressati»: lotta per la verità, la libertà, la umanità ed altre idee altrettanto nobili. |
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[1] - YEVGENY V. TARLE (1950), da La tattica della diplomazia borghese, Edizioni Sociali 1952, pp. 5-15.
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